C’è chi all’anniversario festeggia, io faccio un bilancio delle competenze acquisite: la vida loca
È tipico di me. Quando mi prefiggo un obiettivo faccio una lista e quando ne raggiungo uno faccio un bilancio di quello che ho imparato strada facendo. In questo caso, il bilancio arriva al secondo anniversario della mia promozione a Heaf Of Branded Editorial Content Team in Hearst Digital. Due anni in cui mi sono ritrovata ad affiancare il mio lavoro di giornalista, brand storyteller e project manager con un ruolo di responsabilità che prevede il coordinamento di un team tra le cinque e le sette persone. Non l’avevo mai fatto prima e così me lo sono dovuto inventare il mio modo di essere un buon capo. L’ho realizzato per la prima volta qualche giorno fa, quando un mio contatto su LinedIn ha condiviso questa frase:
“Un leader positivo riconosce il talento di ogni persona, cerca opinioni nel team e fa attenzione a valorizzare ognuno, perché sa che tutto il gruppo può trarne vantaggio. Un leader negativo è geloso del proprio ruolo, attacca in gruppo quando ha spettatori e teme che qualcun altro si prenda il merito di una buona idea o di un lavoro ben fatto”. Ogni giorno si può scegliere chi essere o chi diventare.
Che tipo di capa voglio essere? È una domanda che mi pongo ogni volta che mi trovo di fronte a una decisione che deve essere presa. Trovare una risposta e fare la cosa cosa più giusta per quella situazione è uno degli aspetti più difficili, per quella che è la mia esperienza, dell’essere la capa di qualcuno. Anche per questo – e non solo perché adoro fare i bilanci – ho deciso di sedermi qui oggi, a tavolino come si dice, per raccontare cosa ho imparato.
1. La mia sindrome dell’impostore è ancora qui, solo che ha cambiato tono di voce
Una delle prime cose che ho fatto quando mi hanno promossa è stata leggere “Il pessimo capo” di Domitilla Ferrari. Volevo essere sicura, dopo una sfilza di pessimi esempi, di non essere diventata alla fine una pessima capa anche io. Ricordo di aver divorato il libro in due giorni e di aver fatto il test che c’è alla fine con la stessa sensazione di quando ho fatto quello della patente: ero certa che sarei stata bocciata. Che mi avrebbero scoperto, che non ero capace (ciao, sindrome dell’impostore, ciao) che stavo facendo tutti quegli errori che nella mia carriera avevo visto fare alle persone sopra di me e che presto mi avrebbero odiato tutte – il mio team era, ed è ancora, tutto al femminile. Con mia grande sorpresa, da quel test risultò che non solo non ero un pessimo capo, ma che, per quanto alle prime armi, avevo tutte le carte per diventare una responsabile che sapeva il fatto suo. A quel punto, messa a tacere quella vocina che è sempre lì a ricordare a noi donne che non siamo mai abbastanza, mi sono resa conto che non era neanche del tutto vero che io fossi alla mia prima esperienza di leadership: sono stata capo scout e Presidente di un paio di associazioni giovanili, per più di dieci anni. Di capi, invece, al lavoro ne ho avuti tanti e tante: quattro che definisco buoni e i cui insegnamenti in positivo mi porto ancora dietro; e due, che senza esitazione definisco pessimi, e i cui insegnamenti in negativo mi porto ancora dentro. Come si riconosce un buon capo? E come lo si distingue da uno pessimo? Da un buon capo vorresti prendere esempio; da uno pessimo sai che la cosa giusta è comportarti esattamente all’opposto. Ci sono poi altri indicatori un po’ più concreti – e rimando al libro di Domitilla Ferrari per conoscerli tutti – ma credo che questo sia la base da cui poter partire. Ed è quello che ho cercato di fare io in questi due anni. Ogni tanto la mia sindrome dell’impostore si fa sentire e allora capisco che è giunto il momento di chiedere un feedback.
2. Saper dare e ricevere un buon feedback è importante
La parola feedback è composta da “feed”, nutrire, e “back” indietro, letteralmente significa “restituire nutrimento”. Per questo non mi piace parlare di “dare” un feedback, quanto invece di “scambiare”. Non è un feedback se invece di essere mirato a un accrescimento, è solo un giudizio fine a se stesso, e se è unidirezionale. Quando chiedo a una persona per cosa dovrei darmi una pacca sulla spalla da sola e su cosa invece dovrei migliorare, e in che modo secondo lei, mi assicuro di arrivare con le risposte a queste stesse domande pronte da restituire a chi ho di fronte. Forse ho avuto solo fortuna a trovare delle persone che lavorano con me che si sono subito ben disposte a questo tipo di scambi, ma il fatto di aver concordato con loro due momenti all’anno di scambio di questo tipo, ci mantiene ambo le parti attente a dare il meglio di noi stesse.
3. Ma costruire un ambiente dove le persone si sentono di poter contribuire lo è ancora di più
Soprattutto se nel tuo team ci sono delle donne (nel mio caso, lo siamo tutte). Secondo l’edizione 2023 del rapporto Women In The Workplace di Lean In e McKinsey & Co, le donne – o i soggetti female presenting, cioè coloro che, a prescindere dalla definizione di genere appaiono alle altre persone come tali – hanno più probabilità degli uomini di subire micro aggressioni sul posto di lavoro. Dalla battutina sul vestito a quella sulla maternità, per una donna diventa psicologicamente più facile, e più sicuro, fare un passo indietro, contribuire con le proprie idee il meno possibile perché parlare riporta l’attenzione su di sè e questo non sempre, se sei una donna, è un bene. In attesa che questa consapevolezza arrivi anche alle aziende, le donne vanno in burnout quattro volte più facilmente degli uomini ed è tre volte più probabile che, alla fine, decidano di cambiare lavoro. Non sto dicendo che dobbiamo fare la rivoluzione (o forse sì?), ma il minimo che possiamo fare come responsabili è divenire consapevoli di questo stato di cose e tenerlo presente sempre: nelle riunioni che indiciamo, quando qualcuna non parla, chiederle che cosa ne pensa, anche in separata sede, per incoraggiarla nell’usare la sua voce e dare così il suo contributo; quando siamo nelle stanze con “i pezzi grossi”, parlare di loro, del loro impegno, dei loro successi e portare le difficoltà, perché siano quantomeno viste, se non è possibile risolverle; ma anche ammettere di non avere sempre tutte le risposte e coinvolgere le persone nella ricerca di una soluzione condivisa, oltre a dare un riferimento positivo, ho imparato che è anche un ottimo esercizio di team building.
4. Infine, ricordarsi di chiedere “come stai?” e di dire “grazie”
E ascoltare davvero la risposta. Siamo gentili e impariamo a considerarci a tutto tondo. Non perché il lavoro debba prendersi tutto lo spazio e l’azienda debba sapere sempre tutto, no, ma perché lavoriamo insieme minimo otto ore al giorno, condividiamo lo stesso spazio (con le mie colleghe spesso diciamo scherzando che siamo coinquiline!): siamo persone, ciascuna di noi ha una storia e una vita fuori dall’ufficio e tutto questo ha il diritto di essere riconosciuto, rispettato e anche difeso. Come capa, penso che essere consapevole di questo e sostenere le persone che lavorano con me nel diventarlo a loro volta – in questo tempo che ci vuole sempre iper performative e che vede il lavoro come ambito di realizzazione principale del sè – sia forse la mia più bella, nobile e difficile, responsabilità.