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Sindrome dell’impostore: la nemica del successo per la tua azienda

A volte capita che le persone non si sentano abbastanza e decidano di fare un passo indietro, in un meeting, in un progetto, in un nuovo ruolo, fuori dall’organizzazione. Se in qualche caso questo accade per timidezza, o per una, oggettiva, non maturità professionale, in molte situazioni il motivo che spinge le persone a fare un passo indietro ha a che fare con quella che viene chiamata sindrome dell’impostore. Silenziosa e ancora poco considerata negli ambienti di lavoro, è la manifestazione di un problema sistemico che può essere veramente dannoso per la nostra organizzazione. È come viaggiare con il freno a mano tirato. Il sentirsi “non abbastanza”, porta infatti le persone a non farsi avanti, a non dire la propria, a non proporsi per ruoli che permetterebbero davvero loro di far emergere il proprio valore.

Che cos’è la sindrome dell’impostore?

La sindrome dell’impostore è stata teorizzata per la prima volta dalle psicologhe statunitensi Pauline Clance e Suzanne Imes nel 1978. Alla fine del loro studio, condotto esclusivamente su soggetti di genere femminile, le due studiose arrivarono alla conclusione che, nonostante i comprovati successi, accademici e professionali, le persone che fanno esperienza della sindrome dell’impostore continuano a credere di non essere, davvero e mai, abbastanza preparate e capaci e che, per qualche scherzo del destino, le altre persone sono convinte del contrario. Da qui, sentirsi delle impostore o degli impostori. Ne deriva un senso di inadeguatezza, che porta le persone a scegliere di non farsi avanti, per paura di essere scoperte. 

Se le sue manifestazioni afferiscono al campo della psicologia, emerge da studi successivi, in particolari quelli condotti dalla Dott.ssa Valerie Young, che da più di un decennio studia la Sindrome dell’Impostore, è che, invece, la sua origine è sociale e va ricercata nella nostra cultura. È infatti il modello culturale in cui cresciamo che ci insegna che a ogni appartenenza, di genere, età, etnia, abilità, provenienza geografica, orientamento sessuale ecc., è legato un insieme di possibilità che finiscono per costituire ciò che definiamo come normale. E, poiché tutto ciò che vive all’infuori di questo, è percepito come sbagliato, se noi intraprendiamo un percorso, di vita e di carriera, che si discosta da quello che sappiamo essere giusto per noi, ci sentiamo degli impostori e delle impostore.

Sindrome dell’impostore: non è un problema di competenze

Secondo i risultati di uno studio pubblicato sull’International Journal of Behavioral Science alla fine dell’anno scorso, il 70% dei Millennials, ovvero delle persone nate tra gli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso, ha rinunciato almeno una volta a qualcosa nel corso della sua carriera perché non si sentiva abbastanza per farlo. Ma, mette in guardia Young, credere che la sindrome dell’impostore abbia a che fare davvero con le nostre competenze, è una manifestazione della sindrome stessa. Le competenze sono capacità e abilità pratiche che acquisiamo con lo studio e con l’esperienza. A pari opportunità, dunque, la sindrome dell’impostore non dovrebbe esistere. Eppure, perché invece si manifesta? Secondo Young la sindrome dell’impostore è il risultato della differenza di potenziale tra ciò che siamo e come sappiamo che dovremmo essere. In altri termini, ci sentiamo degli impostori o delle impostore perché la nostra immagine, il nostro percorso di carriera, non è conforme a un’ideale che ci è stato trasmesso dal modello culturale a cui apparteniamo. È la pressione sociale a farci sentire inadeguate sempre e comunque, non la grandezza o la profondità del nostro bagaglio di competenze.

Perché la sindrome dell’impostore è nemica del successo di un’azienda

uesto cosa comporta? Se le persone non sanno di poter raggiungere determinati traguardi e che certe opportunità sono anche per loro, quando se le troveranno davanti, tenderanno a fare un passo indietro. In un recente articolo pubblicato sul Harvard Business Review, Ruchika Tulshyan e Jodi-Ann Burey mettono in luce che la sindrome dell’impostore, in particolare negli ambienti di lavoro, agisce in modo sistemico; cioè, agisce trasversalmente all’azienda ed è prodotta dalla forma organizzativa dell’azienda stessa, che oggi è ancora fortemente gerarchica e influenzata dai modelli culturali esterni che ancora tendono a non promuovere inclusione e a premiare sempre lo stesso tipo di persone.

Quando Michelle Obama in Becoming scrive che il motivo per cui non le venne in mente prima di accettare un lavoro era perché non aveva mai visto una donna afroamericana in quella posizione, e si sentì un’impostora, restituisce la misura di quello che avremmo perso se la signora Obama, allora Robinson, non avesse avuto accanto a sé persone capaci di accompagnarla ad accettare quel posto e a diventare, lei stessa, una role model per tante altre donne afroamericane. Scrivono Tulshyan e Burey sulla sindrome dell’impostore nei luoghi di lavoro: “La Sindrome dell’Impostore sembra un problema dell’individuo, ma è, in realtà, un problema del sistema: per sconfiggere la sindrome dell’impostore negli ambienti di lavoro, dobbiamo prima sistemare il modo in cui tali ambienti funzionano e perpetuano gli elementi culturali e sociali di cui questa sindrome è solo manifestazione individuale”.

Come fare per risolvere il problema

È chiaro, a questo punto, che abbiamo un problema. I nostri luoghi di lavoro sono ancora fortemente gerarchici e, nonostante gli sforzi fatti per promuovere diversity e inclusione, i nostri C Level sono ancora abitati per lo più dallo stesso tipo di persone: la maggior parte uomini, di mezza età e di provenienza italiana, europea o nordamericana. E, forse, non abbiamo considerato che uno dei motivi per cui questo accade è proprio il sistema stesso che fa sì che chi non ha tali caratteristiche, non si senta abbastanza per farsi avanti e portare il suo contributo. Secondo i dati riportati nell’articolo di Tulshyan e Burey, la metà delle donne che hanno partecipato a una survey sul tema, pensa che lascerà il proprio lavoro dipendente nei prossimi due anni in favore di una carriera da imprenditrice o libera professionista, dove sente di potersi realizzare davvero, senza sentirsi una impostora. Emerge un problema di comprensione, di partecipazione, di accesso, di fioritura del talento, che si gioca sul silenzioso indietreggiare delle nostre persone.

Come fare per risolvere il problema? Essere consapevoli dell’esistenza della sindrome dell’impostore, come problema culturale e sistemico, interno cioè a tutte le organizzazioni, è certamente il primo passo. Promuovere una cultura comprensiva delle differenze, che sia costruita su piani reali che da un lato premino le idee e il talento e dall’altro diano gli strumenti necessari alle persone dal punto di vista della formazione, è il secondo passo di questa strategia; come lo è anche implementare una comunicazione inclusiva che riconosca esistenza linguistica a tutte le unicità delle persone che lavorano con noi. Progettare poi azioni di mentoring, che accompagnino le persone più giovani laddove non hanno mai pensato di poter arrivare; e azioni di sponsorship, che consentano a chi se lo merita di ricoprire posizioni di alto livello, indipendentemente dalle sue appartenenze culturali, sociali e demografiche. E, infine, esercitare la cultura del nudging in modo collaborativo per accompagnare le persone a capire che, come dice Kamala Harris, Vice Presidente degli Stati Uniti d’America, potrai essere la prima a raggiungere una posizione, ma è tua responsabilità assicurarti di non essere l’ultima.

Articolo pubblicato in originale per Speex.com